Il registro delle pubbliche opposizioni

Il registro delle pubbliche opposizioni

A cura di Codacons Lazio,

A decorrere dal 27 luglio 2022, l’iscrizione al Registro pubblico delle opposizioni (RPO), è stato estesa a tutti i numeri telefonici nazionali, inclusi i cellulari, consentendo ai cittadini di opporsi alle chiamate di telemarketing indesiderate.

Ma che cos’è il Registro pubblico delle opposizioni?

Il Registro pubblico delle opposizioni è attivo e operativo dal 2011, le istituzioni competenti sono il MISE – Ministero dello Sviluppo economico e la Fondazione Bordoni, è un servizio pubblico e gratuito per tutti i cittadini che, una volta iscritti negli elenchi del registro, non potranno più essere contattati dall’operatore di telemarketing, a meno che quest’ultimo non abbia ottenuto specifico consenso all’utilizzo dei dati successivo alla data di iscrizione.
L’iscrizione è possibile secondo le seguenti modalità:

  • attraverso il modulo presente sul sito internet https://registrodelleopposizioni.it/; contattando il numero verde 800 957 766 per le utenze fisse e lo 06 42986411 per i cellulari;
  • inviando il modulo digitale richiesto all’indirizzo email: iscrizione@registrodelleopposizioni.it.

Come detto, dallo scorso luglio è possibile iscrivere nel registro pubblico delle opposizioni anche i telefoni cellulari. Con l’inserimento del proprio numero di cellulare nel registro, oltre all’estensione del diritto di opposizione a tutte le numerazioni telefoniche nazionali sia fisse che mobili, si ottiene anche che i sistemi automatizzati di chiamata o di chiamate senza l’intervento di un operatore, devono rispettare la volontà espressa dai consumatori, ossia quella di non essere disturbati da telefonate pubblicitarie. Una volta iscritti, infatti, i cittadini hanno diritto, dopo 15 giorni, a non essere più contattati per chiamate a scopo promozionale provenienti dall’Italia, restano invece permesse le telefonare con cui le aziende contattano il titolare di un contratto in essere per ragioni inerenti lo stesso, oppure quelle telefonate dove il cittadino abbia espresso il proprio consenso a ricevere comunicazioni di natura commerciale e promozionale.

Ma cosa fare se si è iscritti al registro pubblico delle opposizioni, ma i call center continuano a chiamare?
Può accadere che si ricevano chiamate dai “call center” per fini promozionali e commerciali, nonostante il nostro recapito sia regolarmente iscritto al registro pubblico delle opposizioni, i motivi sono diversi. Molto spesso le chiamate provengono da call center stranieri, ai quali ovviamente non si applica la normativa italiana in tema di telemarketing, o peggio, da sistemi automatizzati che usano numeri fittizi così da non essere rintracciati e non incorrere
nelle sanzioni di legge.
La normativa attuale, inoltre, obbliga l’operatore ad effettuare un controllo precedente alla chiamata per verificare lo status del consumatore, i numeri presenti nel registro non possono essere contattati. Accade però che l’operatore faccia scarsa attenzione a questo tipo di controllo e proceda nelle chiamate indistintamente dal fatto che l’utente sia iscritto o meno. Può essere infatti che le società non riescono a consultare in tempo reale gli aggiornamenti mensili e quindi molto probabilmente qualche numero che è iscritto da poco può sfuggire al blocco delle chiamate. Ci sono poi altri casi in cui, malgrado l’iscrizione al registro pubblico delle opposizioni, si possano ricevere delle telefonate a scopo promozionale. Più nello specifico si tratta delle situazioni in cui viene dato il consenso da parte del consumatore stesso. Ciò accade ad esempio, quando a seguito di un acquisto on line, il consumatore presta il suo consenso al trattamento dei dati ai fini commerciali. In questo caso la telefonata promozionale è del tutto legittima. Diversamente se invece la chiamata arriva da aziende terze alle quali si è certi di non aver fornito i propri dati, si avrà diritto a manifestare il proprio dissenso. Quindi è necessario prestare attenzione alle spunte che si fleggano in caso di acquisto on line o registrazioni a news letter.
Al di là dei casi previsti, chi continua invece, a ricevere telefonate indesiderate malgrado sia iscritto al registro pubblico delle opposizioni può porre rimedio a tale situazione facendo valere i propri diritti di accesso, rettifica, integrazione, aggiornamento e cancellazione, di limitazione del trattamento, di opposizione al trattamento dei dati che lo riguardano effettuato per finalità di marketing diretto. In questi casi, infatti, il consumatore potrà accedere nella pagina del Garante della privacy per azzerare o modificare tutti i consensi dati in precedenza. ( https://www.garanteprivacy.it/home/modulistica-e-servizi-online).
Riassumiamo in breve quali, secondo la normativa vigente, sono gli obblighi per gli operatori prima prima di effettuare un telefonata:

  • accertarsi che il consumatore contattato non sia iscritto al registro pubblico delle opposizioni;
  • rendere visibile il numero da cui chiamano. Sono vietate infatti le telefonate con numeri anonimi o criptati;
  • indicare con la massima precisione al momento della chiamata che i dati personali del contattato sono stati estratti dagli elenchi di abbonati avendo poi cura di fornire agli stessi le indicazioni utili per l’eventuale iscrizione nel registro delle opposizioni.

Nel caso in cui, malgrado l’iscrizione nel registro delle imprese, si continuino a ricevere delle telefonate indesiderate, sarà possibile per il consumatore rivolgersi direttamente al Garante della privacy presentando un reclamo o una segnalazione, attraverso un modulo scaricabile gratuitamente (https://www.garanteprivacy.it/home/modulistica-e-servizi-online) e inviarlo a Garante:

  • tramite fax al numero 06.69677.3785;
  •  tramite e-mail all’indirizzo protocollo@gpdp.it
  •  tramite Pec all’indirizzo protocollo@pec.gpdp.it;
  •  tramite raccomandata indirizzata a: “Garante per la protezione dei dati personali, Piazza Venezia, 11 – 00187 Roma”.

Il Garante ha previsto anche una serie di sanzioni in caso di inosservanza delle regole.
In caso di violazione del diritto di opposizione, le sanzioni possono infatti arrivare
fino a 20 milioni di euro o, per le imprese, fino al 4% del fatturato mondiale totale
annuo dell’esercizio precedente, come previsto dal regolamento Regolamento
Garante Privacy

Data Economy, Data Marketing e Data Profiling: i dati personali possono essere merce commerciale?

Data Economy, Data Marketing e Data Profiling: i dati personali possono essere merce commerciale?

La digitalizzazione è oramai un tema che da tempo affascina la maggior parte delle componenti sociali, sia per le sue infinite applicazioni pratiche sia, soprattutto, per le implicazioni latu sensu politiche che ne derivano. Si è visto come la questione del trattamento dei dati personali, conseguenti alla digitalizzazione delle più varie attività professionali e personali, abbia una rilevanza di primo piano, in quanto corollario al diritto alla privacy di ogni individuo/utente. Parlando di dati ci si addentra infatti nel vasto, vastissimo mondo della collezione e conservazione degli stessi, argomento già affrontato, ma che è e continua ad essere oggetto di analisi anche da parte delle autorità.

La così detta Data Economy, ossia l’economia dei dati reale, basata sulla capacità dei fornitori del servizio online di gestire la mole crescente di informazioni digitali, ha ripercussioni ed impatti che ad oggi sono (più o meno limpidamente) sotto gli occhi degli utenti. Le potenzialità della data economy investono ed investirebbero, secondo la maggior parte degli studi, lo sviluppo economico del sistema Paese garantendo, sia nel pubblico sia nel privato, una più fluida, immediata ed accessibile dinamicità tra il classico rapporto domanda-offerta del sistema economico in generale. Come si è visto però, le implicazioni nel trattamento dei dati investono anche la più ampia sfera privata dell’utente che, al prestare il proprio consenso nella navigazione, mette a disposizione del fornitore del servizio, informazioni sensibili e personali, rientranti nel riconosciuto diritto alla privacy.

La “Patrimonializzazione” dei dati personali

Questione ampiamente dibattuta nei tempi più recenti è infatti il crescente fenomeno di data marketing e data profiling: se un tempo infatti le aziende conducevano indagini telefoniche per conoscere, comprendere ed adattarsi ai propri clienti affezionati e non, ad oggi la mole di dati raccolti è una miniera d’oro (gratuita) per le indagini di mercato e la “profilazione” dei consumatori. Secondo alcuni, le finalità del trattamento dati connesse al marketing e alla profilazione sono tra loro strettamente connesse e, in particolare, la profilazione, più che una finalità, costituisce una modalità del trattamento, la quale permette il perseguimento di altre e diverse finalità, come per l’appunto quella commerciale.

La domanda che sorge a seguito ad un’attenta riflessione è tuttavia particolarmente delicata: possono i dati personali costituire “merce commerciale”, altrimenti “patrimonializzata”?

È una disputa emersa negli ultimi anni ai danni di una delle piattaforme più conosciute, il colosso social Facebook a cui viene imputato un uso improprio dei dati dei suoi utenti, venduti a scopi commerciali ai soggetti terzi connessi alla piattaforma, in quanto fruitori di un servizio (appunto, la registrazione sulla piattaforma, cui prestano consenso). Il Consiglio di Stato sentenzia sull’«ingannevolezza e la scorrettezza commerciale di FB insita nel presentarsi agli utenti come gratis mentre, in realtà, si farebbe pagare in dati personali che sfrutterebbe poi nella dimensione commerciale». Eppure sono gli stessi legali del social network ad asserire che “I dati personali di ciascun individuo costituiscono un bene extra commercium, trattandosi di diritti fondamentali della persona che non possono essere venduti, scambiati o, comunque, ridotti a un mero interesse economico”. Dall’analisi della sentenza dei giudici del CdS, la complessità della questione si sostanzia nella labile consapevolezza degli utenti che cedono dati contro servizi, ma inconsapevolmente, ovvero senza essere adeguatamente informati del rilievo giuridico-economico dell’adesione alle condizioni generali di contratto della piattaforma in questione, anche e soprattutto nel caso di utenti minorenni.

Senza avventurarsi un percorso troppo tortuoso di impronta giurisprudenziale, ci si potrebbe tuttavia domandare se il trattamento dei dati personali degli utenti e il rilievo economico che ne consegue daranno luogo ad un nuovo modello di business (come alcuni prospettano). È lo stesso Garante a dare una prima risposta e a suggerire di analizzare le relative fattispecie attraverso un approccio combinato che passa per l’applicazione della disciplina in materia di privacy e della disciplina a tutela dei consumatori. Proprio applicando la disciplina consumeristica, secondo il Garante, si può sciogliere ad esempio, «il nodo relativo alla legittimità o illegittimità della definizione di gratuito di un servizio “pagato” nella sostanza dagli utenti in dati personali benché la cessione di tali dati non possa considerarsi, in senso tecnico, controprestazione del servizio».

Era digitale e desertificazione bancaria

Era digitale e desertificazione bancaria

A cura di Adusbef,

Una delle caratteristiche emergenti dell’ attuale panorama economico e sociale italiano è la progressiva “desertificazione bancaria”. Secondo uno studio della FABI, il sindacato dei lavoratori del settore bancario, circa 4 milioni di italiani, pari al 7% dell’ intera popolazione, vivono in uno dei 3.062 comuni nei quali non esiste una filiale di un istituto di credito. Dal 2012 alla fine dello scorso anno gli sportelli sul territorio sono passati da 32.881 a 21.650.

Il fenomeno assume caratteristiche diverse a seconda delle aree geografiche: al nord la popolazione interessata ammonta al 6%, al centro al 3,2%, mentre è al sud che il fenomeno appare più marcato, con il 10,7% degli abitanti che non può contare neanche su una filiale vicino casa. La Campania, poi, è la prima regione nel nostro paese per numero di cittadini “senza banca”: sono circa 700.000. A livello regionale, i territori che risentono maggiormente del fenomeno della desertificazione bancaria sono il Molise, con il 37,3% degli abitanti “senza banca”, la Valle d’ Aosta con il 33,4% e la Calabria, con il 28,8%. Le regioni nelle quali la presenza degli istituti è più capillare sono invece l’ Emilia Romagna, dove solo l’1,2% dei cittadini non può contare su una filiale, e la Toscana, in cui la stessa percentuale è dell’ 1,5%. La nostra regione, il Lazio, non risente in maniera particolarmente pesante della desertificazione: solo il 4,3% della popolazione è “senza banca”.

Tra i motivi che spingono gli istituti di credito a chiudere le loro filiali fisiche sul territorio sicuramente c’è l’ avvento e lo sviluppo sempre più marcato dell’ home banking e delle tecnologie digitali; come possiamo facilmente intuire, questa tendenza si è ulteriormente e rapidamente accentuata negli ultimi 2 anni a causa del COVID. Non solo: le agenzie bancarie sono sempre meno frequentate ma richiedono personale attivo con conseguenti aggravi sui costi d’ esercizio. D’ altro canto, però, se è vero che oggi l’ home banking prende sempre più piede, non bisogna dimenticare che l’ Italia si situa al di sotto della media europea per tasso di digitalizzazione bancaria fra la popolazione (45% contro il 58% della media europea). Per di più, va considerato il fatto che i piccoli comuni, che sono quelli più colpiti dal fenomeno in esame, possono avere anche problemi di connessione a internet, con conseguente difficoltà (o impossibilità) per gli utenti di sfruttare l’ home banking. Inoltre, nelle realtà territoriali maggiormente interessate dalla desertificazione vivono in genere persone anziane, meno avvezze all’ uso di strumenti informatici. Questo scenario di desertificazione può influire negativamente sul tessuto economico-sociale dei piccoli comuni: meno banche, infatti, significano meno investimenti, meno imprese, meno lavoro, con conseguente spopolamento dei territori interessati.

Ma cosa c’è alla base della scelta delle banche di chiudere molti dei loro sportelli sul territorio? Secondo Lando Maria Sileoni, segretario della  FABI, gli istituti bancari stanno spostando puntando molto più sulla vendita di prodotti finanziari e assicurativi che sulla concessione di prestiti, mutui e crediti. Inoltre, come si diceva in precedenza, gli istituti di credito giustificano la scelta in base al fatto che ormai molti clienti optano per l’ homebanking. Sta venendo meno, in tal modo, la presenza capillare delle filiali fisiche e così anche il ruolo economico-sociale sul territorio; a supplire nello svolgimento di questo ruolo potrebbero essere le banche di credito cooperativo. Questi istituti, con l’ entrata in vigore del Testo unico bancario nel 1993, sostituiscono le vecchie casse rurali e artigiane. Si costituiscono in società cooperative e in quanto tali hanno carattere di mutualità; hanno inoltre un legame profondo con il territorio. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che, come ogni impresa cooperativa, anche la banca di credito cooperativo nasce come espressione della comunità del territorio e sulla base delle esigenze della stessa. Oggi in circa 695 comuni italiani sono l’ unica presenza fisica e concreta del credito.

Una soluzione al problema potrebbe essere data dall’introduzione di sportelli automatici pluriservizi (informazioni sul conto, prelievo contanti, versamenti, bonifici, richiesta di prestiti) ma molte banche ritengono eccessivamente onerosa la loro gestione alla luce della struttura attuale delle commissioni percepite. Oggi, infatti, tale struttura avvantaggia la banca che emette la carta (bancomat, prepagate ecc.) e non ripaga i costi di gestione a carico della banca proprietaria degli sportelli automatici. I quali sono anch’essi in fase di forte diminuzione per la chiusura di quelli più onerosi: gli sportelli automatici sono passati, infatti, da 41.304 del 2017 a 37.389 del 2021. A fine ottobre, l’Antitrust dovrebbe pronunciarsi proprio sulla eventuale revisione della struttura di pagamento delle commissioni.

Per approfondire:  https://www.adusbef.it/nuovo-sistema-di-commissioni-su-prelievi-da-sportelli-automatici

Blocco delle modifiche unilaterale del contratto luce e gas

Blocco delle modifiche unilaterale del contratto luce e gas

A cura di Codacons Lazio

Con l’approvazione del Decreto Aiuti bis, convertito nella Legge n. 142 del 21 settembre 2022, il Governo ha previsto la sospensione, fino al 30 aprile 2023, delle modifiche unilaterali dei contratti di energia elettrica e gas. La norma, che cerca di mettere un freno ai continui rialzi dei prezzi, all’art. 3 stabilisce che: “Fino al 30 aprile 2023 è sospesa l’efficacia di ogni eventuale clausola contrattuale che consente all’impresa fornitrice di energia elettrica e gas naturale di modificare unilateralmente le condizioni generali di contratto relative alla definizione del prezzo ancorché sia contrattualmente riconosciuto il diritto di recesso alla controparte. Fino alla medesima data di cui al comma 1 sono inefficaci i preavvisi comunicati per le suddette finalità prima della data di entrata in vigore del presente decreto, salvo che le modifiche contrattuali si siano già perfezionate.” Le società di fornitura di energia elettrica e gas, ormai da tempo, stanno cercando di scaricare i maggiori costi di energia e gas su famiglie e imprese. La cosa che ci allarma è che questo avvenga nonostante lo stesso stop alle modifiche unilaterali sia stato stabilito con il decreto Aiuti bis.
Ma in cosa consistono le modifiche unilaterali di contratto?
Le società di fornitura di energia elettrica e gas, ma non solo, prima decreto aiuti bis, potevano decidere di modificare le condizioni di contratto, bastava comunicare tale modifica al consumatore, anche attraverso un semplice SMS. Molte aziende, infatti, si dimostrano riluttanti e non permettono al consumatore di recedere dal contratto con le scuse più fantasiose. La più ricorrente è quella in cui sostengono di non aver ricevuto alcuna comunicazione dal cliente riguardo la volontà di recedere dal contratto. Il decreto aiuti bis ha sospeso questa possibilità. Ciò nonostante sono molte le società che ad oggi inviano ai consumatori, anche mezzo
raccomandata, la comunicazione di tali modifiche. I consumatori che hanno ricevuto dal proprio fornitore tale comunicazione dovranno diffidare lo stesso ad applicare le tariffe indicate nel proprio contratto, è inoltre consigliabile, per coloro che non hanno ricevuto questa comunicazione, non rispondere a proposte commerciali che propongono tali modifiche, se non si è certi di volerle accettare.
Dopo aver inviato al proprio gestore la diffida, nel caso in cui la società, vincolata dal Decreto Aiutibis, può  decidere di rifiutare di erogare luce e gas in perdita alle vecchie condizioni contrattuali, comunicando l’interruzione del contratto. In questo caso ovviamente le utenze non vengono interrotte, ma semplicemente il consumatore finisce in quello che viene definito Servizio di Ultima Istanza in caso di fornitura gas, o in regime di Maggior Tutela nel caso dell’energia elettrica. Il servizio di ultima istanza è un regime contrattuale pensato dall’Autorità’ di regolazione per energia, reti e ambiente, ARERA, per far confluire i clienti delle società che possano trovarsi in fallimento o, comunque, impossibilitate a proseguire la fornitura al cliente finale.
In questo caso, la società di vendita del mercato libero che non può apportare modifiche economiche, può sempre decidere di interrompere la fornitura, mandando il cliente, direttamente dal mese successivo, in Ultima Istanza per la fornitura gas e in Maggior Tutela per la fornitura di energia elettrica. Mentre con la modifica unilaterale del contratto ci sono comunque 60 giorni di preavviso per applicare le nuove condizioni tariffarie e, dunque, ancora 60 giorni di fornitura ai vecchi prezzi, con la cessazione del contratto non c’è alcun preavviso e, al termine del mese solare della comunicazione, il cliente viene trasferito alle società che erogano il servizio di ultima istanza.
Le condizioni tariffarie del regime di Ultima Istanza sono, per i primi 6 mesi di permanenza in tale regime, uguali alle condizioni del servizio di Maggior Tutela. Trascorso tale periodo, proprio per scoraggiare i clienti a permanere in questo regime, si applica un sovraprezzo alle condizioni di tutela, in modo da rendere svantaggiosa per il consumatore la permanenza in Ultima istanza e spingerlo a sottoscrivere un nuovo contratto con un fornitore del Mercato libero. Il Decreto Aiuti bis contiene anche alcune misure per ridurre il cosiddetto “Caro Energia”. In deroga a quanto previsto dal Testo Unico IVA (Dpr 633/72), le somministrazioni di gas metano usato per combustione per usi civili e industriali contabilizzate nelle fatture emesse per i consumi stimati o effettivi dei mesi di ottobre, novembre e dicembre 2022, sono assoggettate all’aliquota
IVA del 5 per cento. Qualora le somministrazioni siano contabilizzate sulla base di consumi stimati, l’aliquota IVA del 5 per cento si applica anche alla differenza derivante dagli importi ricalcolati sulla base dei consumi effettivi riferibili, anche percentualmente, ai mesi di ottobre, novembre e dicembre 2022.
Tali disposizioni si applicano anche alle somministrazioni di energia termica prodotta con gas metano in esecuzione di un contratto servizio energia di cui all’articolo 16, comma 4, del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115, contabilizzate per i consumi stimati o effettivi relativi al periodo dal 1° ottobre 2022 al 31 dicembre 2022.
Inoltre, al fine di contenere per il quarto trimestre dell’anno 2022 gli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore del gas naturale, l’Autorità’ di regolazione per energia, reti e ambiente, ARERA, mantiene inalterate le aliquote relative agli oneri generali di sistema per il settore del gas naturale in vigore nel terzo trimestre del 2022.
L’articolo 3, invece prevede che fino al 30 aprile 2023 e’ sospesa l’efficacia di ogni eventuale clausola contrattuale che consente all’impresa fornitrice di energia elettrica e gas naturale di modificare unilateralmente le condizioni generali di contratto relative alla definizione del prezzo ancorché’ sia contrattualmente riconosciuto il diritto di recesso alla controparte. Infine si prevede che fino alla medesima data sono inefficaci i preavvisi comunicati per le suddette finalita’ prima del 10 agosto 2022 (data di entrata in vigore della legge) salvo che le modifiche contrattuali si siano già perfezionate.
L’articolo 4, per ridurre gli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico, l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (ARERA) provvede ad annullare, per il quarto trimestre 2022, le aliquote relative agli oneri generali di sistema elettrico applicate alle utenze domestiche e alle utenze non domestiche in bassa tensione, per altri usi, con potenza disponibile fino a 16,5 kW ad annullare, per il quarto trimestre 2022, le aliquote relative agli oneri generali di sistema applicate alle utenze con potenza disponibile superiore a 16,5 kW, anche connesse in media e alta/altissima tensione o per usi di illuminazione pubblica o di ricarica di veicoli elettrici in luoghi accessibili al pubblico.

Il percorso verso la digitalizzazione: un decennio di tempo

Il percorso verso la digitalizzazione: un decennio di tempo

A cura di MDC Lazio,

La continua espansione delle pratiche e delle attività legate al digitale innesca non solo la modernizzazione delle attività che ogni individuo conduce, ma anche una sorta di competizione sullo stato di digitalizzazione che le differenti società raggiungono gradualmente. Questa stessa competizione è pesata dall’Unione europea che dal 2014 misura i progressi compiuti dai suoi Stati membri nel settore del digitale attraverso il così detto DESI, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società. Il DESI compila una classifica degli Stati membri in base al loro livello di digitalizzazione e ne analizza il progresso relativo nell’arco degli ultimi cinque anni, tenendo conto del rispettivo punto di partenza. Questo particolare strumento è utile alla Commissione per monitorare e allineare i Paesi al suo programma strategico “Percorso per il decennio digitale“, una strategia basata su quattro punti cardinali per assicurare un equo e sano sviluppo delle pratiche digitali per ognuno dei cittadini europei.

L’Unione, persuasa dall’idea che società e tecnologie digitali siano una potente opportunità per imparare, intrattenere, lavorare e realizzare nuove ambizioni, riconosce nella digitalizzazione anche una preziosa risorsa per conquistare nuove libertà e diritti, offrendo ai singoli l’opportunità di andare oltre le comunità fisiche, le posizioni geografiche e le posizioni sociali. Si propone così, entro il 2030, di raggiungere quattro obiettivi prioritari per una popolazione digitalmente qualificata e professionisti digitali altamente qualificati; infrastrutture digitali sicure e sostenibili; trasformazione digitale delle imprese e digitalizzazione dei servizi pubblici. È un percorso ambizioso quello dell’Unione, ma motivato dalla convinzione che, “anche ai fini della transizione verso un’economia a impatto climatico zero, circolare e resiliente, conseguire la sovranità digitale in un mondo aperto e interconnesso conferisce ai cittadini e alle imprese l’autonomia e la responsabilità necessarie per costruire un futuro digitale antropocentrico, sostenibile e più prospero”. Lungo il decennio dunque, l’Unione si impegna ad affrontare la principale sfida comune: il divario digitale tra i suoi Paesi membri.

IL PERCORSO DELL’ITALIA DIGITALE

Ad oggi, l’Italia percorre una strada fatta di luci e ombre: l’edizione 2022 del DESI colloca l’Italia al 18º posto fra i 27 Stati membri dell’UE, ma con ampi margini di miglioramento rispetto al passato. In quanto terza economia del sistema europeo, la rilevanza dei progressi italiani nel percorso di digitalizzazione dell’Unione è cruciale per consentire all’intera UE di conseguire gli obiettivi del decennio digitale per il 2030; nonostante i consistenti progressi raggiunti negli ultimi cinque anni, la trasformazione digitale sconta ancora varie carenze cui è necessario porre rimedio. È la stessa politica italiana a riconoscere la necessità di sviluppare misure volte a potenziare il sistema digitale, tra le quali l’istituzione di un Ministero per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale e l’adozione di varie strategie chiave. Nell’ottica dell’attuazione del PNRR, il Paese dispone sia dei fondi necessari allo sviluppo sia di una robusta base industriale e di comunità di ricerca in settori chiave come l’intelligenza artificiale, il calcolo ad alte prestazioni e la quantistica. Secondo lo stesso DESI, questi punti di forza si potrebbero sfruttare per dispiegare il digitale in tutti i settori dell’economia e dello sviluppo sociale, sotto la guida dei designati principi digitali. L’Italia decide dunque di investire su sé stessa elaborando la Strategia Italia 2026 e il corollario Piano Operativo che insieme ambiscono a realizzare la così detta Repubblica Digitale, restituendo una risposta organica e complessiva sul tema delle competenze digitali. Quattro sono gli assi d’intervento chiave sui quali i Ministeri competenti, in concerto tra loro, agiscono per raggiungere gli obiettivi: Istruzione e Formazione Superiore, per lo sviluppo delle competenze digitali all’interno dei cicli d’istruzione formale per i giovani; Forza lavoro attiva, per garantire competenze digitali adeguate sia nel settore privato che nel settore pubblico; Competenze specialistiche ICT, per potenziare la capacità del Paese di sviluppare competenze per nuovi mercati e nuovi lavori legati alle tecnologie emergenti e al possesso delle competenze chiave per i lavori del futuro; ed infine Cittadini, per sviluppare le competenze digitali necessarie a esercitare i diritti di cittadinanza e la partecipazione consapevole alla vita democratica. Il piano e gli obiettivi italiani sono ambiziosi e potenzialmente “rivoluzionari”, se si considera come i persistenti gap in ambito di competenze, accesso e connettività limitino ancora il Paese ai posti inferiori della classifica europea. Nella continua ed accelerata corsa alla digitalizzazione infatti è opportuno mantenere viva l’attenzione non solo sul raggiungimento dei progressi tecnici e tecnologici, ma anche e sinergicamente sulle possibilità e capacità dei cittadini e degli utenti di “stare al passo”. Guidata dai sei principi digitali (Persone e Diritti al centro della trasformazione digitale, Solidarietà e Inclusione, Libertà di Scelta online, Partecipazione allo spazio pubblico digitale, Sicurezza, Protezione ed Empowerment delle persone ed infine Sostenibilità del futuro digitale), l’Italia può percorrere una strada equilibrata e consapevole, beneficiando concretamente degli strumenti per migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini.

Nuovo sistema di commissioni su prelievi da sportelli automatici

Nuovo sistema di commissioni su prelievi da sportelli automatici

A cura di Adusbef

Ad ottobre l’Antitrust dovrebbe pronunciarsi sulla richiesta che la società Bancomat Spa.ha inoltrato circa la revisione radicale delle commissioni percepite a carico dell’utilizzatore della carta presso Atm gestiti da altra banca.

Oggi, la commissione viene incassata dallo stesso istituto presso cui è radicato il conto ed emittente la carta Bancomat. In media il livello di commissioni pagate per l’utilizzo di sportelli di altre banche è di circa 1,8 euro. La banca emittente quindi addebita il suo correntista dell’importo definito dal contratto, e gira una quota (50 centesimi di euro) alla banca che gestisce lo sportello automatico utilizzato. Con questa struttura, il grosso della commissione resta presso la banca emittente il Bancomat ed una piccola parte alla banca che gestisce lo sportello. E’ evidente che stando così le cose, le piccole banche dotate di pochi sportelli Bancomat, o addirittura di un solo sportello automatico, lucrano sui propri clienti perché costoro per avere contante devono troppo spesso rivolgersi ad ATM di altre banche. A rimetterci, quindi, sono proprio i clienti di quelle piccole banche a cui verrà addebitata la commissione di prelievo presso altri istituti.  Al contrario, i clienti di grandi banche, dotate di centinaia di Bancomat distribuiti su tutto il territorio nazionale, risulteranno avvantaggiati dal fatto che, in genere, le banche non addebitano commissioni se il prelievo è effettuato da propri clienti su propri sportelli.

Poiché le banche considerano non sufficientemente remunerativi i 50  centesimi riconosciuti dalla banca emittente il Bancomat, stanno procedendo alla chiusura di molti ATM. Banca d’Italia informa che gli ATM attivi nel 2021 erano 45.500, contro  i 47.700 del 2018 e i 50.500 del 2015. Questa riduzione è in atto nonostante la grande diffusione del Bancomat, specie in Italia. I dati di Bankitalia (Appendici alle Relazioni annuali del Governatore anno 2022 e 2016) ci dicono che nel 2021 erano in circolazione 60,940 milioni di carte Bancomat, di cui 60,904 milioni abilitate per i pagamenti ai POS. Erano 51,256 milioni nel 2015, di cui 50,317 abilitate POS. La proposta di Bancomat Spa vorrebbe ribaltare la filosofia delle commissioni applicate. La società infatti chiede che a percepire quelle commissioni non sia più la banca emittente la carta Bancomat, ma sia la banca che gestisce lo sportello automatico utilizzato da non clienti.  Se venisse accolta, con questa proposta le piccole banche con pochi ATM non lucreranno più sui loro clienti, obbligati a prelevare contante frequentemente presso bancomat di altre banche. Rispetto al sistema attuale, se fosse possibile imporre un livello massimo di commissioni (attorno ad un euro?), i correntisti avrebbero dei vantaggi non indifferenti rispetto al livello odierno medio di 1,8 euro; le banche non avrebbero più convenienza a chiudere gli ATM, perché il servizio risulterebbe adeguatamente remunerato, anzi sarebbero invogliate ad investire introducendo ATM multi funzione (in grado di offrire altri servizi bancari oltre la fornitura di contante) specie in quei comuni dove non esiste (o non esiste più) una filiale bancaria; soprattutto verrebbe soddisfatta la logica economica che vuole che il pagamento remuneri chi offre un  servizio (in questo caso l’ ATM) e spende per gestione e manutenzione, e non chi fornisce la carta Bancomat, la cui remunerazione è percepita dalla banca emittente attraverso commissioni imposte annualmente al correntista titolare.

Certamente Antitrust dovrà valutare le conseguenze in termini concorrenziali della proposta di Bancomat Spa. Se cioè ci sia il pericolo di abuso di posizione dominante da parte delle grandi banche rispetto alle piccole e piccolissime. Ma se guardiamo le cose dal punto di vista dell’utilizzatore finale (il correntista) il fatto che di 1,8 euro di commissioni addebitate ben 1,3 euro restino in tasca alla propria banca solo per aver emesso la carta Bancomat, risulta difficilmente giustificabile. E’ chiaro che i costi imposti dalla banca titolare dello sportello bancomat devono essere conosciuti dal cittadino che intende utilizzare quello sportello automatico prima che effettui l’operazione. In altri termini, sul video dell’ATM deve subito comparire il costo dell’operazione di prelievo, prima che si inizi la procedura di prelievo.

Restiamo in attesa delle valutazioni di Antitrust.

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